a cura di Padre Giuseppe Sinopoli

 

 

                                                                                                                                                                                   fotogallery

                                                                                                                                                                                   introduzione

                                                                                                                                                                                   presentazione

                                                                                                                                                                                   premessa

                                                                                                                                                                                   conclusione

                                                                                                                                                                                   pubblicazioni

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’U MONACU

di Ilario Principe

 

 

 

La grande casa occupava un intero lato della piazza sulla quale sorgeva la chiesa, l’unica del paese. Un pesante portone in castagno ne celava l’entrata: il portone era sempre aperto, ma in caso contrario bastava alzare la ziccula per schiudere l’oscura cavità che celava. Solo di notte il portone veniva veramente chiuso, con una maniglia di ferro consumata dall’uso e dagli anni. Nessuno sapeva quando la casa, e il portone che ne rappresentava un pò il volto aristocratico fra le case basse della piazza e delle stradette vicine, era stata costruita: solo dopo molto tempo in un giorno di luce favorevole (il sole nascente la tagliava obliquamente nella giusta direzione e con la giusta intensità) si potè leggere la data malamente graffita nella chiave dell’arco: 1796.

 

Superato il portone si accedeva a un vasto sottoportico. A destra una porta menava a due magazzini fra loro comunicanti ma ciascuno con il proprio affaccio sulla piazza. Erano due ambienti che potevano venire affittati per piccoli commerci o per riporre derrate di pregio; molto tempo dopo in uno venne ricavato un trappeto per il vino e l’altro, quello in comunicazione diretta col sottoportico, adibito a deposito di cose ormai inutili ma che dispiaceva buttare via definitivamente. La porta di comunicazione fra i due ambienti venne sbarrata per comodità e sicurezza da chi il vino se lo faceva coi metodi tradizionali, senza bisolfito (o almeno così si diceva). A sinistra un’altra porta si apriva su una cantina scavata in parte nella roccia, lo scoglio come veniva chiamato perché si notavano nella scabra superficie dell’impasto conchiglie e piccoli scheletri marini; qui venivano anche riposte balle di fieno, erba medica e derrate di poco valore e grosso volume.

 

Davanti al sottoportico si apriva una gradinata di quattro larghi scaloni di granito, l’ultimo dei quali portava la pietra da macina coi quattro segnaposti per giocare alle carte (così dicevano, anche se era arduo giocare alle carte seduti per terra attorno alla pietra macina), che si aprivano su una piccola corte interna triangolare. A destra di questa corte si trovavano le stanze della quotidianità: la cucina, la legnaia, un ingresso per la gente comune, una stanza per mangiare e per stare attorno al fuoco del camino o alla ruota del braciere. A sinistra una scala con normali scalini di granito e con la ringhiera di ferro permetteva di accedere ai piani nobili superiori, che di nobiltà ormai avevano poco: la stanza più vasta, soleggiata e bella era stata adibita via via a scuola elementare, ufficio delle imposte, poi di collocamento prima di restare definitivamente negletta. Accanto a questa scala una porta formata da una solida tavola di quercia immetteva in un altro magazzino, fresco e ventilato, dove c’erano le giarre dell’olio, si conservava il formaggio e venivano riposte le granaglie in grossi cassoni di legno, e sotto al quale si stendeva un’altra cantina interamente scavata nello scoglio, con accesso proprio indipendente sui timpi. A destra della porticina e in asse col portone d’ingresso una scala, sempre in granito ma più piccola delle altre, conduceva a una specie di torretta che troneggiava nel mezzo del cortile. In cima a questa scaletta un astraco all’aperto ospitava una porta che consentiva l’accesso a tre vani collegati fra loro in successione: era questo ’u monacu.

 

Io sono nato in quella casa, in una stanza del piano nobile accanto alla galleria, l’ambiente di rappresentanza coi mobili antichi e le statue della chiesa da portare in processione che venivano là conservate non per necessità ma per sottolineare l’importanza della famiglia. Me ne sono allontanato nei primi mesi del ’44, almeno così credo, e della vecchia casa conservo pochi vivissimi ricordi: l’andirivieni di gente, sia del paese che della campagna, a riverire ed ossequiare i membri della famiglia coi doni che l’economia di sussistenza permetteva; lo zio maestro, fratello della nonna materna, che ci picchiava sul dorso delle mani col righello di legno, posto di taglio se la mancanza era grave; Rosario Bellini, sempre allegro sulla soglia della cantina perché sempre pronto al bicchiere, che là sotto non mancava mai; il freddo di quell’inverno con la neve che si accumulava dietro ai vetri e copriva il gradino del suo soffice mantello; il regalo di tre caramelle per la mia festa, compleanno e onomastico insieme perché sono nato il giorno di Sant’Ilario patrono del paese, che allora, prima della riforma dei santi, si festeggiava il 14 gennaio, più che sufficienti in tempi duri a contentare i bambini e che avevo diviso con mio fratello e mia sorella; e il monaco, nel suo abito marrone, coi piedi arrossati e la gerla in mano che si infilava lesto nel portone, salutava con un «pace e bene» pronunciato a voce alta per chi voleva sentire, prima di salire i gradini della sua dimora, ’u monacu appunto. In tutti i paesi c’era infatti la consuetudine che nella casa più illustre per nobiltà o per censo fossero riservate una o più stanze per il monaco di cerca che andava di casa in casa per la raccolta dell’olio di noci, del vino, del miele, delle castagne, del pane fresco, dei formaggi, dei salumi e di quant’altro le stagioni fossero benigne ad elargire. A noi bambini, ma forse anche ai grandi, era proibito entrarvi pena minacce di scomunica e chissà quali castighi ultraterreni, e ci tenevamo alla larga da quell’aereo pianerottolo anche se la curiosità era forte e i giochi che facevamo su quei piccoli accoglienti scalini inducevano sempre in tentazione.

 

Sono tornato in quella casa nel ’59. Solo due povere vecchie l’abitavano ormai, mia nonna Caterina e Teresa ’a Davulisa, così detta perché di Davoli, una fantesca d’altri tempi che era rimasta incrollabilmente attaccata alla casa e alla sua ultima padrona; vestite di nero tutt’e due, come nera la casa si presentava. Un nero mediterraneo, fresco d’antichi lutti e di recenti delusioni. Ho contato 36 stanze, e sono entrato in tutte. Senza crederci più neanche lei stessa, la nonna comunque mi ammonì di non andare nel monaco. Inutilmente. La porta del monaco si apriva su un vano irregolare, vuoto; solo in un angolo c’era del granturco ad asciugare su tela di sacco stesa per terra. Da qui si entrava per una porta malconcia a un solo battente in quella che doveva essere stata la stanza da letto del monaco: un pagliericcio di crocchianti foglie di granturco era ancora poggiato su un letto di ferro con le tavole, e accanto la brocca dell’acqua e il catino di metallo smaltato col suo treppiedi. Non c’era il soppeppe, il pitale: una porticina permetteva infatti di accedere al gabinetto, l’unico esistente nella casa. Era un minuscolo cubicolo occupato per metà da un asse di legno con un buco nel mezzo, che sporgeva pensile nella parte più nascosta del giardino. Non c’era acqua, solo un chiodo dove veniva fissata la carta per pulirsi, o lo straccio che adempiva alla stessa bisogna senza sprechi perché si poteva lavare periodicamente. Tutto molto romantico e primitivo, per uno che veniva da una città come Firenze; e per quell’anno, e l’anno successivo prima che venisse costruito un vero gabinetto, l’odore degli escrementi in fermentazione (che venivano sparsi a concimare le verdure, le fave, i pomidori del giardino) ha accompagnato la scoperta di un mondo che stava per scomparire.

 

Nella galleria c’erano ancora le statue, e ci sarebbero rimaste per pochi anni ancora, ma il monaco non si era fatto più vedere da tempo mi disse la nonna che ormai aveva accettato che il ragazzo di città si servisse del gabinetto riservato a quello sporadico visitatore.

 

Il convento di Chiaravalle Centrale, da dove venivano in prevalenza i monaci, era rimasto quasi deserto, non c’era più alcun bisogno di fare la cerca, e poi la casa non avrebbe saputo cosa dare perché le due uniche abitatrici se la passavano piuttosto male, e non potendo dare avevano bisogno di ricevere. Mi sembra di poter dire che non si trattava di monaci ma di frati, se era vero che provenivano dal convento di Chiaravalle. La definizione di monaco è comunque in Calabria per gli appartenenti agli ordini religiosi, anche conventuali, ma vi si potrebbe vedere la reminiscenza di altre frequentazioni più arcaiche quando veri monaci, ad esempio agostiniani o addirittura certosini se è vero che Argusto si trova sulla via di comunicazione fra la Certosa di Serra San Bruno e le marine di Montauro e Montepaone dove i certosini avevano le frangie dalle quali si facevano inviare fra le altre cose il pesce, hanno con certezza frequentato il paese.

 

’U monacu è ancora là, trasformato in civile abitazione. La corte interna, gli scalini di granito e la torretta sono intatti; un malinteso senso della sicurezza e dell’ordine ha indotto a sostituire con una porta d’alluminio anodizzato e vetro il vecchio battente di quercia. Gli ambienti interni sono irriconoscibili rispetto al passato ed è stato demolito il gabinetto pensile. Il giardino è vuoto ma le vegetazione vi cresce rigogliosa e c’è bisogno di periodiche puliture per evitare che si trasformi in un ricettacolo di serpi e insetti nocivi. La casa è stata divini fra diversi eredi, parzialmente intonacata sui muri esterni e messa a norma di sicurezza per gli impianti elettrici. Ma non è abitata. Solo d’estate i giovani ne fanno base per andare al mare a Soverato. Nessuno si ricorda più del monaco e dei suoi frequentatori.

 

(Ilario Principe)