a cura di Padre Giuseppe Sinopoli |
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PRESENTAZIONE
C’è in noi calabresi, o meridionali che dir si voglia, un bisogno forte e pressante di ripercorrere i filoni essenziali della nostra vicenda storica - che è vicenda umana, civile, sociale, culturale e soprattutto religiosa – per ritrovare i pilastri su cui poggiare in modo solido e positivo il più grande nostro bisogno di futuro.
Questo itinerario è possibile se esso si muove riscoprendo e camminando accanto alle figure emblematiche di tale vicenda, che nei tempi diversi si sono susseguite e li hanno caratterizzati con l’insegnamento e l’esempio generoso della loro vita.
Se un’epoca può essere assunta come globalmente espressiva del massimo degrado della Calabria, endemicamente protrattosi fino ai nostri giorni, è quella del Seicento e, per molti versi, dei primi decenni del Settecento illuminista e riformatore, giacché in essa si compendia la lunga notte del Viceregno.
E’ in questo periodo che, infatti, nelle nostre contrade si registra l’effetto più deleterio del peggiore feudalesimo, privato com’esso era …di ogni capacità politica, davanti a un potere centrale enormemente più forte delle monarchie indigene dei secoli precedenti,… e affermato …come ceto egemone a livello socio-economico… ampiamente e veramente parassitario; del peggiore tessuto religioso, proteso principalmente all’incetta di beni, e della peggiore – nonostante taluni sporadici sussulti –, sonnolenta sopportazione di uno stato di cose che umiliava ogni persona, come uomini prima che come cristiani.
E’ il tessuto religioso che assume, già con la triste vicenda dei valdesi di Guardia o con alcuni roghi nella piazza di Squillace, significative tracce di protestantesimo ultramontano, che mostra se non esperienze di stregoneria, sicuramente di diffusa superstizione e di semplicistico innesto nella demonologia tradizionale, nel terrore della morte, della prepotenza spagnola e della malattia, terrore che si spegne solo nell’abbandono totale alla religione e ai suoi misteri e alla sua carica consolatrice.
Il territorio della diocesi di Squillace – dove il frate di Olivadi nasce e sviluppa la sua formazione e il suo più ricorrente impegno in tre dei quattro conventi cappuccini distribuiti nei punti strategici della diocesi: Chiaravalle, Stilo e Squillace - non resta fuori da queste problematiche e non sfugge a questo contesto, che, per la sua marginalità geografica e per la carenza di risorse e di gesti economici consistenti, si ingrandisce a dismisura e riassume tutte le difficoltà e i turbamenti vissuti dal popolo calabrese o meridionale in quel secolo.
Si tratta di una società che non può evitare le conseguenze della tentata ribellione antispagnola di Tommaso Campanella e dell’altra tentata sommossa del domenicano fra Tommaso Pignatelli, congiure politico-religiose che scintillano dal suo seno anticipando i moti masanelliani; che soggiace alla politica vessatoria della monarchia; che non può scrollarsi le paure per il diffondersi della piaga nuova e disarmante della la peste e della minaccia concreta e ricorrente di incursioni piratesche, fatte di stupri, razzìe e schiavitù inaudite.
Ben poco possono o vogliono fare i vescovi del tempo, impegnati - fatta eccezione di alcuni come mons. Crispino e mons. Queralt, figure carismatiche e di profonda spiritualità che avviano una pastorale incisiva e penetrante – più a rivendicare patrimoni, privilegi o prerogative che a mostrare il necessario spirito apostolico, in ciò pienamente assecondati dal Clero secolare, anche quì articolato nella complessa stratificazione che distingueva il «basso» e l’«alto» clero, il clero ignorante e il clero colto, e, aggiungiamo, il clero sensibile e quello refrattario ad ogni scrupolo apostolico, anche qui con le debite eccezioni, come il caso di don Sansone Carnevale di Stilo, che a metà Seicento riesce a fondare a Napoli una Congregazione di preti per le missioni apostoliche .
Resta l’opera meritoria dei nuovi Ordini, soprattutto «mendicanti», che riesce a travolgere l’aridità pastorale dei venerandi monasteri, quasi tutti dati in commenda a personalità che da lontano pensavano a «godersi le rendite», e della stessa celebre Certosa di San Bruno, gioiello spirituale incuneato nella Diocesi, e di cui però, in quel tempo, traspariva solo la posizione patrimoniale e feudale dello storico complesso.
Tra le tante comunità religiose, quella cappuccina risulta certamente la più vicina al popolo, con la sua semplicità francescana e con l’austero tenore di vita dei suoi semplici conventi, che perciò si rende la più accessibile, la più convincente e la più imitabile dalla massa di povera gente e che riesce a cogliere il dramma profondo dell’animo popolare e i suoi concreti bisogni e, quindi, a plasmarlo, infervorarlo e indirizzarlo, anche attraverso «missioni» e «quaresimali» che si esprimono, secondo lo stile e gli schemi pedagogici del tempo, con figure, rappresentazioni e drammatizzazioni sacre, verso la ricerca e la richiesta di beni immateriali.
Padre Antonio da Olivadi è figura rappresentativa e sicuramente trascinatrice di questo dramma popolare e di questa capacità dell’esperienza francescana a trasmettere tale messaggio, che Egli – con la sua immensa spiritualità, la sua grande santità, il suo intenso ardore missionario - riesce a trasferire in questo angosciante e dolorante vissuto di gente povera ed emarginata attraverso l’immedesimazione nel Cristo Crocifisso e nei Dolori di Maria, che diventano simboli e riferimenti dei loro dolori e delle loro angosce, scuotendo e coinvolgendo folle immense di fedeli.
Utilizzare altri stereotipi culturali, propri di altre società e di altre situazioni storico-religiose o di altre personali vedute, significherebbe non solo percorrere un criterio di lettura fuori del tempo e della realtà meridionale, ma anche essere lontani da pratiche ed autorevoli condivisioni di altri uomini santi che, utilizzando stimoli analoghi, si sono mossi sullo stesso itinerario missionario o che hanno colto, come il «nordico» san Giuseppe Cottolengo, il genuino spirito apostolico dell’anima e del messaggio del Venerabile padre Antonio.
La recente scoperta delle reliquie del venerabile Servo di Dio, nuovo e moderno miracolo dell’umile e santo cappuccino, non fa che ripresentare e rimettere in circolo il valore non solo simbolico di questo insegnamento e di questa testimonianza, mentre scende il crepuscolo del secondo millennio e si intravedono i primi bagliori del terzo, tuttora carico delle incertezze e delle sofferenze storiche delle nostre genti.
Tutte queste cose e tutte queste proiezioni sono intercettate e ampiamente sviluppate da Padre Giuseppe Sinopoli, giovane e colto cappuccino che amorosamente e intelligentemente interpreta e ravviva, in questa moderna ed intensa biografia, la storia e l’impegno del cappuccino di Olivadi, «missionario apostolico» come fu chiamato e conosciuto, ma anche umile e convincente seguace della semplicità e della povertà francescana.
Egli scrive questo libro, dopo altre apprezzate ricerche e pubblicazioni, offrendo pagine interessanti che inquadrano lucidamente il tempo del venerabile Padre Antonio e per la prima volta, dopo quella scritta a metà Settecento da un altro autorevole cappuccino di Olivadi, che ricostruiscono, in modo accessibile, discorsivo ed emozionante, la Vita santa e generosa del Venerabile Padre Antonio, questa volta seguendo fedelmente l’Autobiografia che, alla luce dei documenti disponibili, possiamo ritenere autentica e attendibile.
Sono, perciò, veramente lieto ma soprattutto onorato, di firmare questa Presentazione, esprimendo le congratulazioni più vive ed amicali a Padre Giuseppe per un libro che non solo arricchisce il patrimonio culturale e religioso della nostra terra, ma deve servire, me lo auguro di tutto cuore, a far conoscere, amare e studiare di più la Personalità davvero eccezionale del venerabile Padre Antonio, rimasta per troppo tempo nell’oblio ingiustificato e che, proprio attraverso contributi come questi, speriamo possa uscire dalla ristretta cerchia di devoti ammiratori e ottenere presto, dopo circa tre secoli di irragionevole silenzio, il riconoscimento della santità della sua vita e la conseguente gloria degli Altari.
Squillace, 10 marzo 1999.
On. prof. GUIDO RHODIO Vice Presidente VII Commissione Cultura – Ricerca – Europa dei Cittadini - Giovani del Comitato delle Regioni Europee BRUXELLES
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